È pacifico per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la Storia che Napoli fu, principalmente durante il ‘700, una delle maggiori capitali culturali europee. Scrivo questo all’alba di un prossimo “forum delle culture” (non ancora nato è già vespaio di polemiche) sul quale il critico più sanguigno che è in me non vede l’ora di affondare i denti.
Tanto capitale europea, dunque, che pure quando menziona le leggendarie origini etimologiche dei suoi prodotti più tipici denunzia un dialogo con l’arte e la cultura. Mi riferisco, in particolare, alla romanzata nascita del nome della “mozzarella”, così come una tradizione – popolare ma colta – nota a pochi ce la tramanda. Il mito vuole infatti che tale battesimo avvenne durante un ricevimento nobiliare partenopeo al quale partecipava un giovane ma già noto Amadeus Mozart. Dimostratosi particolarmente ghiotto dei suddetti latticini, trascorse buona parte della serata accanto al tavolo dove erano stati poggiati come banchetto. Qualcuno, riconoscendo il musicista, ebbe ad esclamare, in francese come era buon costume fare tra le classi più alte, “Mozart est là”, indicandolo con il dito. Ora, un buon accento francese prevede innanzitutto una discreta liason tra le parole e, rispettando la zeta aspra tipicamente austro-tedesca, avremmo quindi un certo “Mozarelà”. Il fatto che il vassoio di mozzarelle fosse lungo la traiettoria del suo dito indicante ha fatto il resto.
Ovviamente, come già specificato, si tratta di una storia di pura fantasia (il termine “mozzarella” ha un’etimologia molto più tecnica), ma questo aneddoto vuole essere una dimostrazione di quanto la storia, la società e – perché no – l’inventiva napoletana fossero fuse con l’estero più illuminato e illuminista.
C’è stato dunque un tempo in cui Napoli prosperava rigogliosa tra arte, raffinatezze e mozzarelle. Ma c’è stato anche il momento, poco tempo dopo, in cui ha intrapreso una sorta di declino del quale oggi ci godiamo il ristagno (difensori indefessi della città si mettano il cuore in pace: le cose stanno così). Ma ciò su cui vorrei soffermare l’attenzione è la spinta propulsiva che in passato ha mantenuto anche (e soprattutto) durante l’affondamento. Siamo nel 1869, qualche anno dopo l’ingresso di Garibaldi nella città, e una manciata d’anni prima che Matilde Serao scrivesse “il ventre di Napoli”. La città sta diventando lentamente quel crogiolo grumoso di case, persone e problemi che da lì a cent’anni darà da parlare a politicanti, uomini di Stato, scribacchini improvvisatisi giornalisti e speculatori.
Ciononostante, e anzi grazie ai sempre più incalzanti problemi sociali, la parte intellettuale della città trova la forza di lanciare un segnale non indifferente al resto d’Italia e in particolare al Vaticano, che proprio in quell’anno decide di inaugurare il concilio ecumenico Vaticano I. La risposta al richiamo di tanta attenzione sulla Chiesa fu promossa ad opera di Giuseppe Ricciardi che diede vita al cosiddetto “anticoncilio napoletano I”.
Dati e fattori storici sono a disposizione di tutti in diverse opere editoriali, di cui alcune davvero meritevoli. Non è mia intenzione fornire informazioni già di per sé reperibili; vorrei invece suggerire dei piani interpretativi più concettuali e sicuramente del tutto personali.
Quanto Ricciardi abbia avuto a che fare con la Massoneria e quanto essa abbia effettivamente influito sul suo progetto, è materia di storiografi ed eventuali revisionisti. Ma è fuor di dubbio che la concezione di questo intento è stata del tutto anticlericale e fondata su criteri di laicità che ritroviamo tra i primordiali intenti delle logge dell’epoca. Così come è pur vero che la Massoneria di allora aveva un volto – e una forma – diversi da quella di oggi. Era, quella, un’ispirazione che traeva origine da massimi sistemi. Non si dimentichi che siamo pur sempre nel secolo delle grandi ideologie: socialismo e anarchia marciavano forti sotto l’egida di Marx, Proudhon e Bakunin. Quest’ultimo in persona aveva postulato l’esistenza di una Massoneria ispirata a un radicale umanesimo ateo. Va ricordata inoltre una lunga deriva illuminista mai sufficientemente arginata dal Romanticismo.
La ricerca di uno stato (e Stato) di cose migliore, la natura laica dell’uomo e del suo cervello, la marcia verso il progresso, l’armonioso ordine della democrazia ateniese rivissuto in un simile intellettualismo moderno spietato e mistico al tempo stesso: sono questi i fondamenti che accomunano i grandi movimenti sociali del tempo con la Massoneria di allora. E questa comunione dava forza e soprattutto idee e risposte a quanti già sentivano gli scricchiolii di una realtà cedevole.
Non è poi da sottovalutare quanto Ricciardi scriveva in merito affermando che “Noi siamo, e noi soli, i veri discepoli del vostro Gesù, noi che ci studiamo di combattere senza posa la povertà e l’ignoranza”. Un messaggio questo che sicuramente divide molte opinioni (ricordiamo che non a caso l’anticoncilio fu un’esperienza dalla quale molti massoni stessi presero le distanze). Ma tuttavia, abbracciando l’impronta positiva e positivista delle affermazioni di Ricciardi, a me pare di poter leggere, attraverso la lente della storiografia, una sorta di impulso primo votato ad assicurare le verità fondamentali che caratterizzerebbero il vivere civile di ogni uomo. Sembra quasi, in tali parole, di sentire l’eco di quel De Andrè che reduce da anni di convinta anarchia ideologica, identifica i principi basilari della libertà dell’individuo con quelli annunciati dal Gesù uomo e non figlio di Dio, il Gesù “primo vero rivoluzionario della storia”. Basta poi leggere l’opuscolo dell’epoca La frammassoneria in dieci domande ad istruzione del popolo per ritrovare la possibile costituzione di una città che, nel suo evidente idealismo quasi sfrenato, viene a porsi a metà tra la Nephelococcygia di Aristofane e l’Utopia di Moro.
E’ dunque nel novero di grandi verità – e grandi obiettivi – che quella Massoneria andava ad inserirsi, formando così un solco che ha senza dubbio suggerito la crescita storica (per non dire i primi vagiti) dell’Italia. Una Massoneria forse non così tanto Massoneria, per vari aspetti certamente diversa. Ma rimanendo tuttavia l’interessante testimonianza di una certa comunione di intenti, di linee culturali che per un dato momento e precisi scopi hanno vibrato quasi all’unisono.
Tutto questo animava lo spirito che ha originato l’anticoncilio napoletano. E’ di un forte simbolismo il fatto che una città come Napoli, che possiamo immaginare quasi memore e fiera delle sue glorie settecentesche, abbia ospitato tra le sue mura un progetto ambizioso e sfaccettato come quello del Ricciardi. Così come tale progetto ebbe il saluto di fratelli quali Victor Hugo. C’è da chiedersi quanto sarebbe possibile e quanto bene apporterebbe risentire nella città di oggi lo stesso impulso intellettuale, benefico e vivificante.
Mi rendo conto che è un argomento talmente vasto che per trattarlo con la dovuta serietà non basterebbe un semplice articolo. Ma, come lasciavo intendere prima, non è mia intenzione farlo. Volevo semplicemente cogliere il buono che questa Storia può insegnare a noi che ne viviamo un’altra. Ed è pur giusto ricordare fatti e persone che non hanno precisamente cavalcato gli eventi come altri, ma non per questo debbano essere ignorati quali possibili modelli per ciò che ci accingiamo a vivere.
Fonte: Danilo D'Acunto