Nella Città Eterna in Via Giulia nel cuore di Roma, all’interno di Palazzo Falconieri come uno scrigno, custodisce l’affascinante opera del Borromini, che cela al suo interno importanti simboli ermetici.
Papa Giulio II nel primo decennio del 1500 volle far edificare su progetto dal Bramante il primo rettilineo della Roma moderna, che di fatti prese il nome di Via Giulia.
Arteria destinata a divenire una strada di rappresentanza, ove si allinearono i “blasoni” più importanti dell’epoca, elevando la via ad un ruolo importante per la politica e le pubbliche relazioni, anello di congiunzione fra le attività commerciali ed il foro giudiziario. La zona era già divenuta di forte importanza, ma sotto il pontificato di Leone X dei Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, che aveva portato presso la sua corte pontificia numerosi esponenti dell’alta aristocrazia fiorentina, Via Giulia divenne ancor più prestigiosa, poiché abitata principalmente da ricche famiglie fiorentine[1], come i Falconieri, una eminente famiglia di banchieri che, oltre ad avere il privilegio della riscossione delle gabelle a Roma, percepiva ingenti somme di denaro dal proficuo commercio del sale.
Il palazzo, oggi è sede dell’Accademia d’Ungheria[2], fondata nel 1927 con l’appoggio personale dell’allora primo ministro Benito Mussolini[3].
Sorge sui resti di un antico porto fluviale posto sulla riva sinistra del Tevere, i cui ruderi si possono scorgere nel sotterraneo dell’edificio, che ancora oggi parzialmente li conserva[4].
Il Palazzo, fu dapprima proprietà della famiglia Ceci, poi dal 1574 dei Principi Odescalchi, passò ad altre nobili dinastie e dal 1606 fu dei Duchi Farnese, come testimoniano i blasoni delle illustri Casate[5].
Nel 1638 Orazio Falconieri[6], della nobile famiglia fiorentina di banchieri, per accrescere il suo prestigio sociale in Roma, acquisì questo Palazzo, che come altri rilevanti edifici di via Giulia progettati a grandi linee dal Bramante, erano di proprietà dei Farnese i quali nel loro disegno politico ed architettonico avrebbero voluto edificare una sorta di cittadella che comprendesse il maestoso Palazzo Farnese, questo palazzo ed altri fondaci che si sarebbero dovuti collegare con la Farnesina al di là del Tevere.
La ricca Casata dei Falconieri ben presto, con l’ausilio dei cospicui proventi derivanti dai loro offici e dal commercio riuscirono ad inserirsi nell’alta società capitolina, eleggendo dimora in questo prestigioso Palazzo che acquistarono direttamente dai possedimenti dei Duchi Farnese.
Orazio Falconieri, ritenendo questa dimora non ancora confacente ai fastigi che ricercava per la propria casata, decise di acquistare anche dei terreni adiacenti e determinò di ristrutturare significativamente l’immobile ed ampliare il Palazzo affidandone i lavori al genio di Francesco Borromini, insigne architetto che vi lavorò dal 1646 al 1649. La scelta ricadde sul grande architetto Borromini non solo perché era uno dei maggiori artisti dell’epoca, non solo per la sua fama e la plastica preferenza per i ritmi impostati sulla curva, il gusto del piccolo contrapposto al grande e la meticolosa cura dei dettagli, ma anche perché Falconieri era legato a lui da un vincolo di amicizia e da una comune passione per l’esoterismo e la simbologia ermetica, molto condivisa in alcuni circoli culturali dell’epoca[7]. Solo di recente, è stato approfondito lo studio dei suoi messaggi simbolici. La figura del Borromini era molto singolare essendo un personaggio non comune. Dal carattere molto introverso e sovente immerso nell’elaborazione strutturata delle sue creazioni artistiche, o nel profondo studio dei suoi libri, non era portato a provare alcun interesse per il denaro e rifuggiva dal fasto anche nella selezione dei materiali per le sue opere. Molto schivo di indole, lontano dai contatti umani superficiali, per la sua caratterialità, non godeva certo dello stesso successo del suo grande rivale Bernini meglio inserito nei contesti mondani, il quale era perfettamente a suo agio nell’atmosfera fastosa della Corte pontificia e poteva beneficiare quindi di grandi riconoscimenti e di cospicui compensi. Come fa notare Leros Pittoni nel suo libro Francesco Borromini - L’iniziato[8], il nostro artista apparentemente tace: “Non dialoga in ricchi giochi di parole, non ha la rumorosità vibrante di accesi colori. Sembra muto… Il silenzio è nudità, ascetismo, dovuto alla povera materia che adopera nel costruire. Un solo colore. Il bianco. Un colore solo, una sola sottile di vibrazione. E simboli. Tanti, a volte anche da scoprire.” Il suo silenzio è in realtà ricco di significati: egli era infatti un “iniziato”. Apparteneva alla cooperazione dei Muratori, da queste corporazioni a seguire trarrà origine la Massoneria. La corporazione, di stretta osservanza cristiana, aveva la sua sede nella Basilica dei Quattro Coronati [9]al Celio. La sua regola era:
“Esporre segretamente e dimostrare silenziosamente”.
Per questi articolati motivi troviamo nell’opera borrominiana una complessa simbologia ermetica che si corrobora con la sua genialità di architetto. Ciò che ai suoi biografi contemporanei apparivano delle stranezze, trovano spiegazione nelle sue profonde conoscenze esoteriche. Messaggi fortemente Simbolici sono racchiusi nelle stelle, nei quadrati, nei cerchi, nei triangoli, come pure nelle croci, nelle palme, e in tutti gli elementi che abbondano nelle sue decorazioni di grande impatto emotivo.
Come tratteggiano le cronache del tempo, fu poco amato dai suoi allievi e fu verosimilmente vittima di un evidente conflitto interiore, che lo vedeva tratto da una fortissima religiosità ed una pari attrazione verso l’esoterismo e la simbologia ermetica. Scalpellino dall’infanzia[10], membro attivo dell’Università dei Marmorari, la figura del Borromini resta ancora oggi un arcano, intorno al quale si danno le interpretazioni più disparate, maggiormente sulla simbologia nascosta nei suoi capolavori.
Falconieri diede incarico al Borromini di ampliarle il Palazzo per celebrare il proprio casato. Il committente richiese al suo amico ed architetto, che ai lati della facciata su via Giulia fossero realizzate due grandi erme[11] barocche con busti femminei e teste di falco, che richiamassero il Blasone della Famiglia.[12] Poste come lesene o cariatidi, si tramanda siano opera almeno in parte dello stesso Borromini.
L’architetto dovette sin da subito confrontarsi con le ambiziose aspettative dell’amico committente, operando il suo progetto attraverso un’attenta esecuzione. Oltre che all’aspetto architettonico, il Palazzo fu ampliato negli spazi e portato dalle originali otto campate ad undici.
Fu personale cura dell’artista provvedere alla decorazione del piano nobile, rivelando così un’anima profondamente artistica, quasi pittorica dai numerosi elementi Ermetici.
Abbellì le sontuose volte con ornamenti a stucco caratterizzate da raffigurazioni simboliche complesse. Il Borromini realizzò quattro stanze dette degli stucchi che si differenziano per i colori Rosso, Azzurro e Verde, mostrando una varietà di elementi affascinanti e suggestivi. Con questi soffitti sapientemente trattati a stucco policromo e dorato, l’architetto realizzò una maniera decorativa tra le più sorprendenti del barocco romano.
Così nel Salone Rosso si trova il motivo simbolico del mondo come nesso spirito-materia, raffigurato con tre cerchi d’oro che rappresentano lo spirito, la materia e l’anima, con il sole raggiante nel punto centrale d’intersezione.
Nella stanza Azzurra, l’artista ha rappresentato l’Universo con numerosi simboli Ermetici come l’Occhio Veggente da sempre presente nella Libera Muratoria, l’Ouroboro, il serpente che si morde la coda, che è emblema della ciclicità del tempo, (Lo stesso Borromini a proposito scriverà «La serpe disposta in circolo nell’atto di mangiarsi la coda indica la perennità dell’Universale Sostanza. Così l’avevo dipinta al centro di una cornice ovale, insieme al Globo terrestre, lo Scettro e all’Occhio-che-tutto-vede». L’Axis Mundi (che rappresenta il Chiodo di magnete) ed il Globo Terrestre presente sin dai primordi anche nei Templi Massonici sulla Colonna Boaz.
Altre immagini si basano prevalentemente su figure allegoriche che unendo elementi araldici dei Falconieri, aggiungono raffigurazioni botaniche, emblemi tratti da antichi testi cinquecenteschi, simboli ermetici e forme geometriche.
Nei pennacchi compaiono Squadre, Compassi, Cornucopie colme di Melograni e foglie di Acanto tutti elementi del simbolismo Latomistico.
Nelle ultime due stanze, quelle Verdi, assistiamo a una composizione più misurata, quasi classicheggiante, con foglie d’Acanto che in Massoneria unitamente ai Melograni sono presenti nella Colonna Jakin, Palme che nel simbolismo alchemico rappresentano il Mercurio ed altri elementi vegetali ugualmente simbolici, che formano una sorta di fregio continuo. Sul prospetto che affaccia sul lato del fiume Tevere è invece interessante la Loggia composta di tre arcate a tutto sesto, sovrastata dalla meravigliosa altana dalla quale i Falconieri ed i loro selezionati ospiti, miravano dall’alto i tetti di Roma.
La terrazza circondata da una transenna di balaustre è arricchita a sua volta dalla presenza delle teste di Giana-Giano, di suggestivo effetto simbolico.
Nel corso dei secoli il Casato dei Falconieri si unì con quello dei Princìpi Carpegna ed accrescendo le loro dimore residenziali, non necessitando dell’uso di questo palazzo, lo locarono ad esponenti di alte prelature papaline, per lo più a cardinali.
Dal 1815 al 1818 vi dimorò Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone Bonaparte, in quanto sorellastra del cardinale Fesch, allora residente nel palazzo.
Alla fine dell’Ottocento, estintasi la famiglia Falconieri, il palazzo passò alla famiglia Medici del Vascello, infatti nel 1890 il palazzo fu venduto al generale Giacomo Medici, garibaldino e Fratello Massone,[13] strenuo difensore della Repubblica Romana a Porta San Pancrazio.
Il generale Medici offrì il Palazzo Falconieri a Luigi, suo nipote, che poi lo vendette all’ungherese Vilmos Fraknói, fondatore del primo istituto storico laico. Questi nel 1927 lo cedette a sua volta al governo ungherese che vi pose la sede dell’Accademia d’Ungheria[14].
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[1] Non è un caso che qui si trovi anche San Giovanni dei Fiorentini, la chiesa madre della Signoria a Roma.
[2] Collegium Hungaricum
[3] Il capo del governo dell'epoca, István Bethlen e Kuno Klebelsberg ministro d'istruzione e degli affari del culto, acquistarono il palazzo di particolare bellezza, perché volevano donare una degna dimora, nella Città Eterna, alla scienza e alla cultura ungherese come anche alla formazione degli artisti, come ricordato anche sulla lapide commemorativa situata all'ingresso dell'edificio.
[4] Ubicato all’altezza dell’Arco dei Farnese che collega i due versanti della strada, creando un punto di riferimento emblematico della zona.
[5] Il palazzo fu ampliato nel 1576 dalla famiglia Odescalchi. Originariamente aveva otto finestre e un portone decentrato a bugne rustiche con i gigli dei Farnese nella chiave e un cornicione con i simboli degli Odescalchi sulla facciata principale. Agli Odescalchi molti furono i proprietari che si avvicendarono: Francesco Cenci, padre della sventurata Betarice, la famiglia Sforza, il cardinal Giovanni Vincenzo Gonzaga e il cardinal Montalto.
[6] Orazio Falconieri vi dimorò con la sua giovane sposa, Ottavia Sacchetti. Conosciamo bene i tratti del volto di entrambi, poiché il loro monumento funebre ornato di bassorilievi si trova in fondo a Via Giulia, nell’abside proprio della chiesa della nazione fiorentina, realizzati da Domenico Guidi su disegno di Francesco Borromini. E fu proprio la giovane coppia a incaricare il maestro Borromini di trasformare il vecchio edificio gotico, lasciando volare liberamente la sua straordinaria fantasia, decorando le sale e i corridoi con stucchi meravigliosi. Il genio non si smentì: gli esperti sostengono che qui, in palazzo Falconieri, egli abbia realizzato una delle sue opere migliori.
[7] Leros Pittoni, Francesco Borromini: l’iniziato, De Luca, 1995
[8] Leros Pittoni, Francesco Borromini: l’iniziato, De Luca, 1995
[9] Il riferimento storico ed agiografico è legato ai quattro soldati martirizzati ("coronati" cioè dal lauro del martirio) Severo, Severiano, Carpoforo e Vittorino, rei di non aver voluto giustiziare quattro o cinque scultori che si erano rifiutati di scolpire la statua di un idolo pagano, affermando così la loro fede cristiana.
[10] Il Borromini discende da una famiglia di capomastri e scalpellini che operavano in seno alle imprese edili itineranti dei Maestri comacini.
[11] Le erme (in greco antico: ἑρμαῖ) erano dei pilastrini di sezione quadrangolare, di altezza variabile tra 1 e 1,5 m, sormontati da una testa scolpita a tutto tondo
[12] Borromini aumentò la facciata su via Giulia, aprì un nuovo portale e lo delimitò con due pilastri laterali dove collocò due enormi erme a testa di falco, relative al casato dei Falconieri e in particolare alle donne della famiglia, forse relativi anche a 2 horus egizi: ovvero il simbolo del dio Oro, figlio di Osiride e Iside, dio del Cielo e del Sole.
[13] Luigi Pruneti, Aquile e Corone, L'Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini, Le Lettere, Firenze, 2012, p. 119.
[14] Le istituzioni che vi si trovano, l’Accademia d’Ungheria con mansione scientifica e culturale, e l’Istituto Pontificio Ungherese, devono molto alla forza attrattiva delle opere meravigliose di Borromini. Lo Stato Ungherese infatti ha una cura particolare di quest’edificio, si occupa della manutenzione, del restauro necessario, permette le visite guidate agli interessati, e cerca di contribuire anche alla maggiore conoscenza dell’opera intera di Borromini.